Il miracolo dell’uva
Se chiedessimo ad un qualsiasi nojano di descrivere l’essenza di Noicàttaro con una sola parola, cosa gli verrebbe in mente?
Forse facendo una cernita dei propri ricordi, farebbe riemergere dalle sinapsi il profumo avvolgente del ragù domenicale che, puntualissimo al rintocco delle campane della messa delle 11.00, inebriava le stradine del centro storico, come una sorta di richiamo al proustiano ricordo delle madeleine.
Altri forse proporrebbero il pungente odore della cipolla fritta per i calzoni della Settimana Santa e altri ancora ricorrerebbero ad aneddoti non culinari, legati ai valori e gli appuntamenti della nostra comunità cittadina, come la Naka, la Pupa…
È vero, Noicàttaro è tanto, è piena di odori e profumi, di tradizioni ed eventi che la caratterizzano.
Ma proviamo a rivolgere questa domanda ad un qualsiasi abitante dei paesi limitrofi: se ti dico Noicàttaro, cosa ti viene in mente?
Vi assicuro, che al pari degli stranieri, che al primo accenno alla parola Italia, biascicano un prevedibile “pizza, spaghetti, mandolino”, un non nojano sillogizzerà accanto alla parola Noicattaro, la parola: UVA.
Per quante se ne voglia dire, l’uva rappresenta, allo stesso modo del calzone di cipolla e dei riti della Settimana Santa, uno degli elementi inequivocabilmente nojani. Ognuno di noi ha in famiglia qualcuno che ha a che fare con la terra e con questi chicchi saporiti, che dal biondo ambrato al viola intenso danno colore alle tavole di molte famiglie del mondo. Del mondo sì, perché l’uva, l’uva nojana in particolar modo, al suono dell’impegno, della dedizione e della fatica che richiede il lavoro con la terra, valica i confini dei nostri territori per raggiungere buona parte del nord Europa.
Noicàttaro è un paesino a forte vocazione agricola, questa storia bella e importante, fatta di tradizioni e innovazioni, trova le sue origini negli anni Venti -Trenta del Novecento, quando i contadini modificarono irreversibilmente l’economia cittadina con la sperimentazione della coltura della vite a tendone. Sperimentazione che giungeva, indovinate un po’, dai nostri amici della pizza e del mandolino, gli americani. Moltissimi dei nostri concittadini, con l’avvento del nuovo secolo emigrarono nelle Americhe: molti restarono lì, dando vita ad una piccola colonia nojana oltreoceano, ma altrettanti tornarono portano con sé le innovazioni che il nuovo continente proponeva, tra cui proprio quella della coltivazione con l’impianto della pergola.
A poco a poco, come ricorda Rita Tagarelli, si costituì la classe dei cosiddetti m-navacchist, produttori ed esportatori di una particolare tipologia di uva chiamata menna vakk, in virtù dei suoi chicchi succosi che ricordano le mammelle delle mucche.
Oltre ad essere un’uva piacevolissima da mangiare come merenda o a conclusione dei pasti, da essa si è ricavato per anni un vino di una dolcezza ineguagliabile.
Con l’avvento di questa nuova classe sociale di imprenditori cambiarono l’entità della richiesta e di conseguenza anche le modalità di produzione. La roccia affiorante, tipica del nostro territorio -vicino al mare- venne svelta per consentire nuove coltivazioni; al problema della scarsità dell’acqua durante le calde estati si ovviò con la creazione di pozzi artesiani.
Insomma, l’uva generò lavoro e benessere per tantissime famiglie del territorio, tanto che, mosse dal fiume del progresso agricolo, moltissime abbandonarono le proprie abitazioni nel centro storico per avviare la costruzione di nuovi e moderni quartieri residenziali nella periferia del paese, generando però un fenomeno deleterio per il mantenimento e la preservazione della cultura cittadina.
Il progresso apportato dall’avvento di queste nuove colture si inserisce in quella storia che spesso conosciamo troppo poco e della quale ci accontentiamo di conoscere soltanto gli estremi e le manifestazioni più evidenti, dimenticando di essere parte attiva di una comunità e non semplici spettatori.