Siamo ciò che mangiamo

 Siamo ciò che mangiamo

“Turbe est in Patria vivere et Patriam non cognoscere” (È turbe vivere in una patria e non conoscerla) questa è la lapidaria sentenza di Plinio il Vecchio il cui eco giunge ancora ai nostri giorni e che sottolinea la necessità di conoscere la storia del luogo in cui si vive per comprendere al meglio la nostra stessa esistenza. La storia di un popolo è articolata in tante differenti sezioni: arte, lingua, tradizioni e cibo; ebbene è proprio quest’ultimo l’argomento che ci interessa trattare. La cucina “nojana” è ricchissima di piatti tradizionali tramandanti nel tempo di generazione in generazione, ognuno con una propria ricetta di famiglia nascosta da qualche parte e che custodisce generosamente, ma in qualunque modo quel piatto venga cucinato la “tradizione” ne farà da padrone.

Soprattutto durante le festività che preannunciano la primavera come San Giuseppe, o che ne fanno parte come la Settimana Santa, la tradizione culinaria nojana dà il meglio di sé, con una vasta varietà di pietanze che riportano alla mente ad ogni loro morso il passato della comunità.

Il piatto di rito per la Pasqua nojana è “u B-n-ditt”, l’agnello con battuto d’uovo e con erbe aromatiche, forse un tempo cotto in acqua santa. Genericamente è conosciuto come piatto barese, in realtà, però, a differenza di quello nojano, è un antipasto di salumi e formaggi arricchito da agrumi, invece, a Noicattaro è tutt’altra storia perché si tratta di un timballo infornato di finocchi e arricchito con una serie di altri ingredienti come uova (simbolo del periodo pasquale) e l’agnello che veniva utilizzato per dare sapore nella ricetta più antica. Nella versione più moderna si utilizzano, invece, i salumi come fosse veramente una pasta al forno. Anticamente la modalità di cottura era in forno a legna, ma adesso è variata perché non tutti ne possiedono uno.

Il nome “B-n-ditt” deriva dalla procedura che anticamente si faceva prima di infornare, ovvero, si spargeva la teglia con l’acqua santa, benedetta prima di Pasqua. Attualmente c’è ancora chi prepara la vecchia versione con uova e agnello, ma si pensa che la pratica dell’acqua santa sia stata completamente cassata.

Si tratta, però, di un piatto molto ricco, chiaramente riservato ad un giorno di festa, ed è chiaro che solo in un’occasione così speciale potevano essere spesi molti soldi per l’acquisto di alcuni ingredienti come l’agnello, ma notiamo comunque come non ci si discosti dalla tradizione contadina tramite l’utilizzo di verdure di stagione.

Titolazione del propretario “LAB.20”

Titolazione del propretario “LAB.20”

Un altro piatto tradizionale di questo paese in questo periodo dell’anno è il Calzone di Cipolla che è uno dei pochi piatti che non manca mai sulle tavole delle famiglie nojane. Si tratta di una pizza salata ripiena, il cui però metodo di preparazione cambia di famiglia in famiglia. Per l’impasto ci sono diverse versioni, in alcune ricette viene utilizzata l’acciuga, in altre il tonno, c’è chi utilizza l’uvetta e chi no, e anche per la pasta ci sono tre tipologie: pasta all’olio, al vino o all’acqua. Quello che è certo è che si fa e si deve fare.

La ricetta canonica prevede: pasta fatta con vino e olio, ripieno a base di cipolle (viene impiegata la cipolla sponsale, non c’è altra che tenga e questo è un pensier comune) chiaramente fritte, le acciughe salate e le olive baresane. A differenza del “u B-n-ditt”, il Calzone di Cipolla è un piatto molto povero realizzato veramente con i prodotti del nostro territorio per accomunare tutti. Secondo la tradizione questo piatto deve essere preparato e consumato il Giovedì Santo.

Storicamente parlando, si crede possa essere una usanza “copiata” dagli Ebrei, che durante la loro Pasqua, prima dell’Esodo, preparavano pane azzimo ed erbe amare. Infatti, il pane azzimo, come la pasta del calzone, non deve risposare e non richiede, nella maniera più assoluta l’utilizzo del lievito nell’impasto, mentre le erbe amare sono state sostituite dalle cipolle sponsale che non sono altro che le cipolle novelle in cui il bulbo (in dialetto “u tadd”) non si è ancora sviluppato. Un’altra cosa importante è la teglia in cui deve essere cotto, infatti si utilizza “a cazzarao-l”, ovvero la teglia nera a bordo basso e in ferro che si utilizza per la focaccia. Anche per questo piatto la cottura tipica èin forno a legna. Anticamente si faceva cuocere in un forno che si trovava nelle vie del centro storico, conosciuto come “u fur-n d VolìVolà”. Infine, uno dei segreti dell’impasto è la sua stesura, infatti deve essere tirato molto bene ed essere anche molto sottile, no “a stup-p”.

Titolazione del propretario “LAB.20”

Titolazione del propretario “LAB.20”

Ma oltre la tradizione salata non può mancare la tradizione dolce con i classici Biscotti al Gileppo o “Viscutt a u s-c-lepp”. “U s-c-lepp” è una glassa di zucchero a velo e uova usata nei dolci tipici pugliesi come la Scarcella, anticamente regalata ai bambini al posto dell’uovo di Pasqua.

Si tratta di taralli molto doppi, come se fossero due taralli sovrapposti, che crescono in altezza grazie a dei taglietti laterali che si fanno prima di infornare. Dopo la cottura e il raffreddamento, questi biscotti vengono “ng-l-ppt”, ovvero glassati, tradizionalmente la glassatura avveniva con le dita.

Dietro questo dolce c’è una leggenda paesana. Si dice che le tre Marie avessero seguito Gesù fino a Gerusalemme per poter assistere al suo ingresso trionfale in città e, che per l’occasione, avessero preparato delle ciambelle dolci considerando anche l’arrivo imminente della Pasqua. Queste ciambelle erano conservate nelle tasche delle vesti che indossavano, però a causa dell’annullamento dei festeggiamenti, queste pie donneiniziarono a seguire Gesù nel cammino della croce asciugandosi le lacrime con i propri vestiti nelle cui tasche erano ancora conservate le ciambelle. La domenica di Pasqua, una volta che Maria Maddalena aveva appreso della resurrezione di Gesù, corse a dirlo alle altre donne che, mettendosi le mani nelle tasche ritrovarono queste ciambelle che erano ormai diventate bianche e di un sapore ancora più dolce, perché le lacrime versate per Gesù si erano cristallizzate.

La ricetta è, però, molto complicata e bisogna avere una vera maestria per fare in modo che la ricetta riesca al meglio. Infatti, il tutto sta nelle mani le quali devono avere tanta esperienza nel saper incidere i tagli laterali e la giusta quantità di glassa da applicare.

Titolazione del propretario “LAB.20”

Titolazione del propretario “LAB.20”

Come si è potuto evincere, l’aspetto culinario è uno dei capi saldi della tradizione paesana. Non emerge soltanto una semplice e banale ricetta, ma una storia che lega popoli e culture diverse. Come diceva il filosofo tedesco L . Feuerbach “Siamo ciò che mangiamo”, ovvero il modo in cui ci nutriamo ha tantissimi effetti sulla nostra salute e sul mondo che ci circonda, e quindi a noi piace pensare che, nutrendoci di questi piatti, la tradizione continuerà a giovare noi stessi e a rimanere viva e al passo col tempo.